domenica 14 agosto 2016

La scuola materna

Nel 2011 L. iniziava la scuola materna. Dopo due anni di continuità al nido, cambiava ambiente, cambiava amici e maestre ed ero un po' preoccupata per come tutti avrebbero potuto prendere il suo modo di essere. Lui era sereno. Io gli avevo insegnato che quando qualcuno gli chiedeva perché gli piacesse il rosa o i vestiti da femmina o i giochi da bambina lui doveva spiegare che ognuno ha i suoi gusti.
"Ognuno ha i suoi gusti". Quante volte gli ho sentito ripetere negli anni fino ad oggi questa frase. A lui e ai suoi fratelli, quando  fanno branco intorno a lui se qualcuno insiste in maniera eccessiva sul fatto che sembra una bambina!
Pensai che comunque forse era il caso di chiedere un incontro con le maestre per spiegare meglio la situazione e per dire loro che io ero assolutamente dell'idea di assecondare mio figlio. Ero un po' preoccupata ma il colloquio andò bene. Le maestre si mostrarono aperte  e comprensive e la cosa mi tranquillizzò molto. Anche i compagni erano accoglienti. Mio figlio legò subito con le bambine e tutte lo adoravano. Era l'amico perfetto: gentile, carino e pieno di little pony e principesse che non mancava di regalare a ogni occasione! I maschi non parevano escluderlo né prenderlo in giro e i genitori, forse aiutati dal fatto che io non facessi mistero di nulla, parevano assolutamente a loro agio.
Per un bel po' mi sentii molto fortunata.
Per tutti i tre anni di materna ho cercato di parlare apertamente delle caratteristiche di mio figlio. Allora sapevo molto poco, forse nulla, sulla disforia di genere. Allora mio figlio aveva solo 'gusti particolari'. Avevo, comunque, capito che solo attraverso l'apertura e la conoscenza ci può essere un'evoluzione nell'accettazione pubblica.
Alla fine dell'ultimo anno la maestra mi chiamò per un colloquio personale. Era molto felice di parlarmi. Ricordo che entrai nella stanza e appena fui seduta lei mi disse  "Puoi stare tranquilla!! Nel corso dell'anno in classe abbiamo fatto un lavoro bellissimo  sul corpo umano, parlando di tutto e anche della differenza tra maschio e femmina! Adesso L. sa molto bene che chi ha il pisello è maschio e chi non ce l'ha è femmina!" Rimasi basita! Tutto quello che avevo cercato di spiegare non era servito a nulla! Era come se nella testa della maestra non fosse nemmeno concepibile il concetto che l'identità sessuale sia diversa dal sesso biologico! Ed era così contenta della sua comunicazione, del suo annuncio. Perchè grazie al suo lavoro adesso potevo stare tranquilla. E si vedeva che era sincera.
Capii allora il lavoro immane che ancora c'è da fare nel nostro paese perchè siamo ancora prima della fase di accettazione di certe realtà, siamo alla fase dell'acquisizione del concetto. Provai a rispiegare alla maestra la differenza, ma lei insistette sul suo punto. Dopo tutto era lei l'esperta educatrice e io non semplice mamma.

"State of mind" sulla disforia di genere

Vi riporto un articolo abbastanza esauriente su cosa è il disturbo di identità di genere pubblicato sul sito "State of mind. Il giornale delle scienze psicologiche"

Valeria Mancini e Serena Pattara – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Disturbo dell’Identità di Genere: introduzione

Nella nostra cultura occidentale prevale la tendenza a considerare accettabili solo due modalità alternative di presentazione sessuale: maschile o femminile a seconda dell’aspetto esteriore del corpo biologico. Un dato aspetto e determinati comportamenti vengono associati a specifiche categorie di genere. Pertanto, gli stereotipi culturali relativi al genere sono, ancora oggi, molto diffusi e particolarmente rigidi. La percezione del proprio sesso è una componente fondamentale dell’identità umana, ma non sempre il sesso biologico e il ruolo di genere, il comportamento sessuale e il riconoscimento sociale sono in pieno accordo. Diverse sono le possibili combinazioni delle identità di genere e i relativi vissuti psicologici, affettivi e relazionali.
Il Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) e Transessualismo sono i termini usati per descrivere la condizione di un soggetto che desidera vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto; in particolare, il disturbo consiste in un’intensa e persistente identificazione col sesso opposto, in persone che non presentano alcuna anomalia fisica. Tale condizione si presenta con malessere e disagio profondo (la cosiddetta disforia di genere) nei confronti delle caratteristiche sessuate del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale il soggetto non si riconosce.
Il disturbo, che nella maggior parte dei casi è auto-diagnosticato, può riguardare sia i soggetti di sesso femminile (disturbo female to male, FtM) che quelli di sesso maschile (disturbo male to female, MtF); il disturbo è più frequente nella forma MtF con una sex ratio di circa 3:1.

Disturbo dell’Identità di Genere: Definizioni e criteri diagnostici

Il concetto d’identità si riferisce alla totalità di una persona, inglobando in sé sia gli aspetti biologici (identità sessuale), sia gli aspetti psicologici (identità di genere), sia gli aspetti sociali (ruolo di genere).
Con il termine identità sessuale, nello specifico, ci si riferisce alla femminilità o alla mascolinità di una persona (Simonelli, 2002). L’identità sessuale è determinata da cinque fattori biologici:
  • i cromosomi sessuali;
  • la presenza di gonadi maschili o femminili;
  • la componente ormonale;
  • le strutture riproduttive accessorie interne;
  • gli organi sessuali esterni.
L’identità di genere costituisce, insieme al ruolo di genere e all’orientamento sessuale, un aspetto della psicosessualità.
Si considera identità di genere di un individuo il sesso a cui, indipendentemente dalla sessualità biologica, si sente di appartenere (Rogers, 2000). Si tratta della percezione unitaria e persistente di se stessi, o auto-identificazione, come appartenente al genere maschile o femminile o ambivalente (Simonelli, 2002). Ma non è la sola natura, tramite la programmazione genetica, che definisce nella totalità cosa sia una personalità maschile o femminile; lo facciamo in buona parte anche noi stessi e la cultura (Dèttore, 2005).
Il termine ruolo di genere fu introdotto da Money (1975), e rappresenta tutto quello che una persona fa o dice per indicare agli altri e a se stesso il grado della propria mascolinità, femminilità o ambivalenza; pertanto, include anche l’eccitazione e la risposta sessuale. Il ruolo di genere è quindi l’espressione esteriore dell’identità di genere e riflette quei comportamenti imposti direttamente o indirettamente dalla società. Tipicamente il ruolo di genere maschile è associato con la forza e con attività associate al rischio, mentre il ruolo di genere femminile con il prendersi cura dei figli (Diamond, 2002). Ovviamente queste sono concezioni arbitrarie e riflettono gli stereotipi dominanti in una data cultura in un dato momento storico. Quando il bambino cresce, apprende che certi comportamenti, atteggiamenti ed espressioni di personalità sono appropriati alla sua ‘etichetta sessuale’ e altri no, pertanto cerca di adeguarsi al modello maschile o femminile ritenuto accettabile nel suo contesto storico e socioculturale. Società diverse, classi sociali e famiglie differenti possono offrire diversi ruoli di genere ed esercitare differenti livelli di pressione affinché vi sia più o meno conformità agli stereotipi dominanti.
Il concetto di orientamento sessuale riguarda la modalità di risposta di una persona ai vari stimoli sessuali e trova la sua dimensione principale nella preferenza erotica per un partner dello stesso sesso o del sesso opposto. L’orientamento sessuale non è dicotomico, ma si estende lungo a un continuum che va dall’eterosessualità esclusiva all’omosessualità esclusiva.
La maggior parte degli individui sviluppa una chiara attrazione erotica verso l’altro sesso, chiamata eterosessualità, mentre una minoranza si sente attratta sia da maschi che da femmine e questo viene definito bisessualità. Altre persone ancora scelgono partner dello stesso sesso, presentando in tal modo un orientamento omosessuale (Simonelli, 2002).
Il processo di acquisizione dell’identità di genere è la risultante di una collaborazione tra natura e cultura, vale a dire tra la maturazione biologica, che a partire dal sesso cromosomico produce, tramite la secrezione ormonale, la diversificazione sessuale del cervello e dell’organismo e il comportamento delle persone circostanti, che dopo l’assegnazione del sesso alla nascita, si comportano nei confronti del soggetto secondo le regole sociali e le aspettative congruenti al genere attribuito. Solitamente identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale sono tra loro coerenti.
L’identità sessuata è presente in tutti i mammiferi, mentre l’identità e il ruolo di genere prevedono e, in parte, riflettono lo specifico psico-sociale umano (Simonelli, 2002).

Il Disturbo dell’Identità di Genere

La presenza di interessi tipici del sesso opposto è un fenomeno che si manifesta sia nel corso del normale sviluppo (Sandberg et al., 1993; Linday, 1994), sia quando i normali processi evolutivi vengono perturbati. Talvolta, comportamenti tipici del sesso opposto rappresentano solo una breve fase di transizione, soprattutto nel bambino intorno ai due anni; in altri casi indicano una ‘flessibilità di genere’ non accompagnata da alcuna avversione o rifiuto per il proprio sesso di appartenenza, anche se il bambino prova disagio quando i suoi interessi non vengono condivisi o supportati dai coetanei dello stesso sesso, questo comportamento non rappresenta un fenomeno patologico ma, al contrario, potrebbe indicare una buona sicurezza e flessibilità dell’Io; in altri casi ancora, rappresentano un segnale di sofferenza intensa e possono dare l’avvio a serie difficoltà emotive che porteranno a disturbi duraturi (Coates, Cook, 2001). Quando, nel bambino, le preoccupazioni relative al genere assumono un carattere intenso, persistente ed invasivo, la condizione viene definita Disturbo dell’Identità di Genere nell’infanzia. La diagnosi si basa sul grado in cui si manifestano i comportamenti e i desideri cross-gender, nonché sul ruolo che essi hanno nel funzionamento adattivo del bambino. Tale condizione può persistere o meno anche in età adolescenziale e adulta. Le differenze fra il DIG nei bambini e il DIG negli adulti riguardano principalmente due aspetti: nei bambini sono coinvolti anche processi di sviluppo fisico, psicologico e sessuale e c’è una maggiore variabilità nelle conseguenze (Dèttore, 2005). La diagnosi di DIG nei bambini è stata introdotta nella nomenclatura psichiatrica nella terza edizione del DSM (CohenKettenis et al., 2003).
Il DIG è catalogato fra i disturbi mentali del DSM-IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), e viene definito transessuale (per l’ottenimento del consenso per il cambio di sesso) solo chi non ha una psicopatologia associata, in altre parole, chi non ha un disturbo mentale. Questo è dovuto perché, è classificato come disturbo mentale nel DSM-IV. Esso viene discusso nella stesura dell’attuale edizione del manuale, il DSM-5. Secondo il DSM-IV, i criteri diagnostici per identificare il Disturbo dell’Identità di Genere sono i seguenti:
  • A. Deve essere evidente una intensa e persistente identificazione col sesso opposto, che è il desiderio di essere, o l’insistenza sul fatto di essere, del sesso opposto.
Nei bambini il disturbo si manifesta con quattro (o più) dei seguenti sintomi:
  1. Desiderio ripetutamente affermato di essere, o insistenza sul fatto di essere, dell’altro sesso.
  2. Nei maschi, preferenza per il travestimento o per l’imitazione dell’abbigliamento femminile; nelle femmine, insistenza nell’indossare solo tipici indumenti maschili.
  3. Forti e persistenti preferenze per i ruoli del sesso opposto nei giochi di simulazione, oppure persistenti fantasie di appartenere al sesso opposto.
  4. Forte preferenza per i compagni di gioco del sesso opposto.
Negli adolescenti e negli adulti, l’anomalia si manifesta con sintomi come desiderio dichiarato di essere dell’altro sesso, o di farsi passare spesso per un membro dell’altro sesso, desiderio di vivere o essere trattato come un membro dell’altro sesso, oppure la convinzione di avere sentimenti e reazioni tipici dell’altro sesso.
  • B. L’identificazione con l’altro sesso non deve essere solo un desiderio per qualche presunto vantaggio culturale derivante dall’appartenenza al sesso opposto. Inoltre deve esserci prova di un persistente malessere riguardo alla propria assegnazione sessuale, oppure un senso di estraneità riguardo al ruolo di genere del proprio sesso.
Nei bambini, l’anomalia si manifesta con uno dei seguenti sintomi:  nei maschi, affermazione di disgusto verso i propri genitali, o speranza che essi scompaiano, o avversione verso i giochi di baruffa e rifiuto dei tipici giocattoli e attività femminili; nelle femmine, rifiuto di urinare in posizione seduta, rifiuto nei confronti della crescita del seno e nei confronti del ciclo mestruale, speranza che i genitali diventino di tipo maschile, avversione verso l’abbigliamento femminile tradizionale.
Negli adolescenti e negli adulti, l’anomalia si manifesta con sintomi come preoccupazione di sbarazzarsi delle proprie caratteristiche sessuali e/o convinzione di essere nati del sesso sbagliato.
  • C. La diagnosi non va fatta se il soggetto ha una concomitante condizione fisica intersessuale (per es., sindrome di insensibilità agli androgeni o iperplasia surrenale congenita).
  • D. Per fare diagnosi deve esservi prova di un disagio significativo sul piano clinico, oppure di compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altre aree importanti del funzionamento.
Specificazioni: per soggetti sessualmente maturi si possono annotare le seguenti specificazioni basate sull’orientamento sessuale del soggetto: Sessualmente Attratto da Maschi, Sessualmente Attratto da Femmine, Sessualmente Attratto sia da Maschi che da Femmine, e Non Attratto Sessualmente Né da Maschi Né da Femmine. I maschi con Disturbo dell’Identità di Genere sono ben rappresentati in tutti e quattro i gruppi. Quasi tutte le femmine con Disturbo dell’ Identità di Genere riceveranno la stessa precisazione – Sessualmente Attratte da Femmine – sebbene vi siano casi eccezionali che riguardano femmine Sessualmente Attratte da Maschi.
A differenza della precedente edizione (DSM-IV), nel DSM-5 i Disturbi Sessuali non sono più conglobati in una stessa categoria ma in tre categorie distinte: le Disforie di Genere, le Parafilie, le Disfunzioni Sessuali.
La Disforia di Genere è una nuova classe diagnostica del DSM-5 e riflette un cambiamento nella concettualizzazione delle caratteristiche di definizione del disturbo per sottolineare il fenomeno di ‘incongruenza di genere’ piuttosto che identificazione di per sé cross-genere, come è avvenuto nel Disturbo dell’Identità di Genere DSM-IV.
Nel DSM-IV, il capitolo Disturbi sessuali e Disturbi dell’Identità di Genere comprendeva tre categorie diagnostiche relativamente disparate: Disturbi dell’Identità di Genere, Disfunzioni sessuali e Parafilie. Il Disturbo dell’Identità di Genere, tuttavia, non è né una disfunzione sessuale, né una parafilia. La Disforia di Genere è una condizione unica in quanto si tratta di una diagnosi fatta da operatori della salute mentale, anche se una gran parte del trattamento è endocrinologico e chirurgico (almeno per alcuni adolescenti e la maggior parte degli adulti).
In contrasto con la dicotomizzata diagnosi di Disturbo dell’Identità di Genere DSM-IV, il tipo e la gravità della Disforia di Genere può essere dedotta dal numero e tipo di indicatori e dalle misure di gravità. L’incongruenza di genere e conseguente Disforia di Genere può assumere molte forme. Il concetto sesso e disforia quindi è considerato essere multicategoriale piuttosto che una dicotomia, e il DSM-5 riflette l’ampia variazione delle condizioni di genere.
Sono distinti set di criteri e vengono forniti indicatori per la Disforia di Genere nei bambini e negli adolescenti così come negli adulti. I criteri per gli adolescenti e gli adulti includono una serie più dettagliata e specifica di sintomi politetica. Il precedente Criterio A (identificazione cross-genere) e il Criterio B (avversione verso il proprio sesso) sono stati fusi, perché non è stata trovata nessuna evidenza da studi analitici fattoriali a supporto del mantenimento dei due criteri separati. Necessario per la diagnosi è il desiderio di appartenere o la tendenza ad identificarsi precocemente nell’altro genere (criterio B1).
Nella formulazione dei criteri, ‘l’altro sesso’ è sostituito da ‘qualche genere alternativo’. Il termine ‘genere’ al posto di ‘sesso’ è utilizzato sistematicamente in quanto il concetto di sesso è inadeguato quando si parla di individui con un disturbo dello sviluppo sessuale in atto. Nei criteri per i bambini, ‘forte desiderio di essere dell’altro sesso’ sostituisce il precedente ‘più volte dichiarato desiderio’ per catturare la situazione di alcuni bambini che, in un ambiente coercitivo, non possono verbalizzare il desiderio di essere di un altro genere. Per i bambini, un criterio A1 (un forte desiderio di essere dell’altro sesso o un’insistenza che lui o lei è di un’altro genere) è ora necessaria, (ma non sufficiente), il che rende la diagnosi più restrittiva e conservatrice.
Sottotipi e specificazioni: i sottotipi delineati sulla base dell’orientamento sessuale sono stati rimossi perché la distinzione non è considerata clinicamente utile. Una specificazione post-transition è stata aggiunta perché molte persone, dopo aver fatto la transizione, non soddisfano più i criteri per la Disforia di Genere, tuttavia, continuano a subire vari trattamenti per facilitare la vita nel genere desiderato. Sebbene il concetto di post-transition è modellato sul concetto di remissione completa o parziale, il termine remissione ha implicazioni nel senso di riduzione dei sintomi che non si applicano direttamente alla Disforia di Genere.

Eziopatogenesi del Disturbo dell’Identità di Genere

Per le cause del DIG vi è un dibattito aperto, tra chi sottolinea l’importanza dei fattori biologici, in particolare, nell’insorgenza del DIG, sembrerebbero giocare un ruolo importante gli ormoni sessuali prenatali, ad esempio ‘La teoria dell’effetto di feedback positivo all’estrogeno’ (PEFE; Dörner, 1976), secondo la quale il DIG e l’omosessualità potrebbero essere il risultato di eccessi o carenze di androgeni in utero durante il periodo sensibile per lo sviluppo delle strutture ipotalamiche che regolano la produzione di FSH e LH e un temperamento tipico del sesso opposto e chi, invece, adotta un punto di vista più specificatamente psicologico e attribuisce grande importanza a vari fattori ambientali di rinforzo tra cui l’educazione ricevuta in famiglia e gli eventi di vita. Esiste, infatti, un rapporto molto particolare e diretto tra identità di genere e fattori ambientali e intrapsichici, che è necessario indagare e approfondire.
In generale sembra comunque prevalere una teoria multifattoriale che prende in considerazione l’interazione di aspetti biologici, psicologici e ambientali all’origine del DIG.

Incidenza e prevalenza del Disturbo dell’Identità di Genere

Fonti diverse indicano stime diverse sul numero di individui con Disturbi dell’Identità di Genere:
  • 1 su 10-12.000 nati maschi con identità di genere femminile e 1 su 30.000 nati femmine con identità di genere maschile richiedono interventi chirurgici per cambiamento di sesso.
  • 1 su 30.000 nati maschi con identità di genere femminile e 1 su 100.000 nati femmine con identità di genere maschile richiedono interventi chirurgici per cambiamento di sesso.
L’ultima versione del manuale (APA, 2000) riporta che nei campioni di pazienti pediatrici vi sono almeno cinque maschi per ciascuna femmina giunta all’osservazione con questo disturbo. Ricerche recenti (vedi Zucker et al.,1997; Zucker et al., 2003), effettuate su campioni di diversa nazionalità, rilevano che il rapporto è di 6,6 maschi per 1 femmina. Di Ceglie (2002) riscontra un rapporto di 2:1 tra bambini e bambine al di sotto dei 12 anni che presentano un DIG.
Tuttavia, non sono ad oggi disponibili studi epidemiologici che diano una stima attendibile della prevalenza-incidenza del disturbo nella popolazione infantile. L’esperienza clinica indica che si tratta di una sindrome piuttosto rara (Meyer-Bahlburg, 1985; CohenKettenis, Pfäfflin, 2003). La ragione della diversa prevalenza del disturbo tra maschi e femmine non è chiara. Le ipotesi esplicative si orientano verso una maggiore vulnerabilità biologica nei maschi, oppure verso una minore tolleranza dell’ambiente sociale nei confronti dei comportamenti non coerenti al genere esibiti dai maschi piuttosto che dalle femmine, che influenzerebbe l’invio alla consultazione. In genere l’esordio delle manifestazioni più congrue al sesso opposto sono collocabili tra i 2 e i 4 anni e comunque in età prescolare, prima dello stabilirsi di un senso relativamente saldo del genere, che normalmente si sviluppa tra i 4 e i 7 anni. Tuttavia, alcuni comportamenti, come l’indossare abiti del sesso opposto, possono essere talora osservati anche prima dei due anni. Alcuni genitori sottopongono il proprio figlio all’osservazione clinica in concomitanza con l’inizio della scuola perché si rendono conto che quello che loro consideravano solo una fase non accenna a passare; essi riferiscono al clinico che il proprio figlio ha sempre mostrato interessi tipici del sesso opposto (Zucker et al., 2003). Altri genitori non risultano così solleciti nel chiedere una consultazione.
Esordio: precoce nel 66% dei casi, tardivo nel 33% (di regola MtF).
In età prepuberale: maschi > femmine.
In età adolescenziale: maschi = femmine.
In età adulta: maschi > femmine per esordio tardivo MtF.
Transessualismo post-puberale generalmente non modificabile.

Le psicopatologie associate al Disturbo dell’Identità di Genere

Per quanto riguarda il legame tra Disturbo dell’Identità di Genere e la psicopatologia associata, tendenzialmente si riteneva, soprattutto in passato, che il Disturbo dell’Identità di Genere fosse associato molto spesso a gravi Disturbi di Personalità.
Dalla lettura delle varie ricerche svolte in tale ambito, soprattutto delle meno recenti, si intuisce che le problematiche psichiatriche o psicologiche erano considerate più un fattore eziologico che una conseguenza del disturbo.
Gli psicoanalisti hanno postulato che le persone con DIG fossero gravemente psicopatologiche; per esempio Sperber (1973) dichiarava che quanti mostravano una Disforia di Genere presentavano personalità di tipo Borderline; di recente Colette Chiland (2000) ha considerato il transessualismo come un Disturbo Narcisistico con un profondo disturbo della costituzione di sé. Hoening e coll. (1971) affermavano che il 70% dei transessuali mostrava una diagnosi psichiatrica, sebbene solo il 13% fosse francamente psicotico. Meyer (1974) e Steiner (1985) riscontrarono Personalità Narcisistica, Borderline e Antisociale, a cui il Meyer sommava tratti schizoidi, Depressione, Ansia, tendenze suicidiarie e omicide. Anche Gosselin e Wilson (1980) rilevarono prove di introversione ed elevato Nevroticismo rispetto ai maschi senza DIG.
Questa letteratura riguardava soprattutto transessuali e travestiti maschi, e ne evidenziava l’associazione con la patologia psichiatrica; nel contempo evidenziava come nei transessuali di sesso femminile la comorbilità psichiatrica fosse in genere minore (Dèttore, 2005).
Lothstein, invece, (1983,1984) rilevò pesanti associazioni psichiatriche anche nelle donne transessuali. Bockting e Coleman (1992), rilevarono la presenza di Ansia e Depressione e Disturbi dell’Asse II, nel DIG. Hartmannn e coll. (1997) rilevarono importanti aspetti psicopatologici e una notevole disregolazione in senso narcisistico.
Sulla base di queste ricerche e dati, è importante comprendere se la patologia mostrata dalle persone con un Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) sia dovuta al DIG stesso, oppure sia dovuta alla pesante esposizione a fattori stressanti e alle difficoltà derivanti dal trovarsi a vivere in una società omofobica e impreparata ad accogliere le diversità.
La Lev (2004) sostiene che considerando che le ricerche sulla varianza di genere e sui transessuali sono condotte su persone che si rivolgono ai centri clinici specializzati, si tratta di soggetti più disforici di genere e più sofferenti e più disperati e quindi con più probabili e rilevabili patologie, connesse o secondarie alla loro condizione.
Alla luce di queste considerazioni, è bene mettere in luce tutta un’altra letteratura che rileva, invece, come le persone con varianza di genere non debbano mostrare necessariamente gravi aspetti di comorbilità psicopatologica. Holtzman e coll. (1961) sostenevano che i soggetti con DIG erano in genere bene organizzati e con processi di pensiero intellettivamente adeguati. Bentler e Prince (1970) non osservarono importanti diversità sulle scale nevrotiche o psicotiche fra transessuali e soggetti di controllo. Cole e coll. (1997) più recentemente, avevano evidenziato che meno del 10% di 435 transessuali primari mostrava precedenti disturbi mentali. Carroll (1999) affermò che le persone transgender non evidenziavano necessariamente livelli di disturbi mentali più elevati della popolazione non clinica. Analoghi dati furono riportati da Brown e coll.(1995) rispetto alle caratteristiche di personalità di un gruppo non clinico di persone con varianza di genere confrontato con un gruppo altrettanto non clinico di controllo.
Anche Schaefer e coll. (1995) dichiararono che nei transessuali non vi è prova di frequente comorbilità; risultati simili sono stati ottenuti da uno studio italiano (Menichini e coll. 1998) condotto su 8 MtF e 5 FtM. Haraldsen e Dahl (2000), dopo aver condotto un confronto fra pazienti transessuali con soggetti con Disturbi di Personalità e con adulti non clinici, conclusero che i primi mostravano bassi livelli di psicopatologia. Miach e coll. (2000) rilevarono in soggetti definiti come transessuali bassi livelli di psicopatologia; mentre riscontrarono disturbi mentali da moderati a gravi in quei soggetti che erano stati diagnosticati come ‘Disturbo dell’Identità di Genere dell’adolescenza e dell’età adulta, tipo non transessuale’. Non trovarono comunque Disturbi di Personalità. Cohen-Kettins e van Goozen (1997,2002) non evidenziarono particolari problemi mentali in adolescenti che chiedevano la RCS (riattribuzione chirurgica di sesso).
È necessaria un’ulteriore precisazione, in quanto è possibile che, in alcuni casi la sintomatologia psichiatrica dei soggetti con DIG sia la conseguenza di esiti PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder, Disturbo Post – traumatico da Stress) conseguenti a violenze subite di tipo sessuale o comunque legate a pregiudizi e atteggiamenti negativi verso le persone con varianze di genere. Questo tipo di esperienze traumatiche sono molto frequenti in tale popolazione (Courvant e Cooke-Daniels, 1998; Lev e Lev, 1999; Xavier, 2000).
Nonostante i risultati rassicuranti di queste ricerche, non va dimenticato che il DIG possa mascherare rilevanti problemi psichiatrici. Brown (1990) indicò varie diagnosi che possono includere una Disforia di Genere, fra cui il Disturbo da Dismorfismo Corporeo, la Simulazione e la Schizofrenia con Disturbi d’Identità di Genere.
Altra area di interesse è quella dell’uso e abuso di sostanze e alcol. Anche in questo settore vi sono state interessanti ricerche. Xavier (2000) riferisce casi frequenti di Abuso da sostanze. Valentine (1998) sostiene che il 27% degli utenti delle cliniche per la RSC manifesta abuso di alcolici e il 23% consumo di droghe.
Si osserva una ulteriore comorbilità tra DIG e i Disturbi Alimentari, i quali richiedono un attento inquadramento, in quanto talora l’ossessione di modificare il proprio corpo può essere legata a temi dismorfofobici tipici di tali disturbi (Dèttore, 2005).
In letteratura recente sono stati riportati alcuni casi interessanti di comorbilità fra il DIG, quasi esclusivamente in soggetti maschi, e i Disturbi Alimentari (soprattutto Anoressia Nervosa), che suggeriscono l’ipotesi che il DIG possa essere un fattore di rischio per l’Anoressia Nervosa e che comunque, nel caso di pazienti maschi che si presentano con tale Disturbo Alimentare, si dovrebbero tenere presenti nell’assessment anche aspetti legati all’identità di genere (Hepp e Milos, 2002; Hepp e coll., 2004; Wintson e coll., 2004).
Importante inoltre, è sottolineare il rischio elevato di suicidio nei transessuali. Mathy (2002) confrontò a questo proposito 73 transgender con donne (1083) e maschi (1077) eterosessuali, donne (73) e uomini (73) appaiati sotto l’aspetto psicosociale, e donne (256) e uomini (356) omosessuali. I transgender riferirono significativamente maggiori ideazioni e comportamenti suicidiari rispetto a tutti gli altri gruppi, con l’eccezione delle donne omosessuali. Quanti avevano presentato tali aspetti evidenziavano con maggiore probabilità problemi psichiatrici pregressi e attuali, uso di farmaci e difficoltà con alcol e droghe. Successivamente Mathy e coll. (2003) rilevarono come le donne bisessuali e i soggetti transgender avevano, rispetto ai maschi bisessuali, significativamente maggiori rischi di tentato suicidio, difficoltà di salute mentale e ricorsi ai servizi; gli autori sottolineano come in questo caso il sessismo e l’eterosessismo sembrano sommarsi fra loro nella causazione di tali maggiori sofferenze in soggetti che, oltre a essere donne, sono anche bisessuali o varianti rispetto al genere.
Vi è un attuale dibattito tra quanti si sono dichiarati contrari all’etichetta diagnostica e al processo di patologizzazione del DIG e tra chi invece sostiene la necessità di una diagnosi. A tal proposito la Lev (2004) sostiene che il transgenderismo faccia parte di una normale variante sana dell’espressione dell’identità umana, senza alcuna componente patologica.

Disturbo dell’Identità di Genere: Conclusioni

Il disagio riguardo alla propria identità di genere può assumere varie forme e diverse intensità. L’eziologia del Disturbo dell’Identità di Genere è ancora incerta e le molte teorie in merito mettono in luce la sua multifattorialità. Nell’ambito della ricerca è auspicabile che indagini dettagliate vengano messe a punto per colmare le lacune esistenti al fine di chiarire il peso relativo di ciascun fattore di rischio, i nessi causali che collegano più fattori di rischio tra loro, nonché per far luce sugli eventuali fattori di mediazione e precipitanti che concorrono a creare la sofferenza e il disagio delle persone con DIG. Il clinico dovrebbe cercare soprattutto di comprendere l’unicità del paziente, la sua storia e il suo bisogno. Fortunatamente esistono delle chiare linee guida per lavorare con i soggetti che presentano problemi relativi all’identità di genere, capaci di dirigere la fase diagnostica e terapeutica. Tale metodologia ha mostrato dei buoni risultati empirici e la prognosi del trattamento è positiva. Si ritiene, inoltre, fondamentale approfondire la ricerca scientifica sugli effetti a lungo termine delle terapie ormonali e sulle nuove tecniche chirurgiche che, meglio, soddisfino reali e concrete esigenze dell’utenza. A questo scopo, si ritiene essenziale il contributo dei risultati a distanza ottenuti attraverso la raccolta di dati nei follow-up.
Per il fatto che i soggetti con Disturbo dell’Identità di Genere si sottopongono a terapie mediche e chirurgiche irreversibili è fondamentale un’accurata diagnosi differenziale al fine di distinguere questa patologia da condizioni che possono mimarne in qualche modo le caratteristiche ma che con tale disturbo non hanno nulla a che fare.
La patologizzazione d’identità di genere atipiche e la diagnosi relativa alla condizione transessuale sono state cause di controversie e accesi dibattiti. In alcuni casi in cui il senso di incompatibilità tra corpo biologico sessuato e identità di sé e di genere è estremamente precoce e pervasivo si possono verificare gravi disagi psichici che potrebbero giustificare l’etichetta diagnostica; in altre persone le sofferenze psicologiche sono prevalentemente causate dalle reazioni spesso ostili dell’ambiente alla propria atipicità, nonché dalle reazioni sociali discriminatorie.
La comunità europea ha recentemente ribadito l’importanza del rispetto, dell’apertura, dando vita ad un rapporto dell’United Nations Development Programme intitolato La libertà culturale in un mondo di diversità dove scrive:
Lo sviluppo umano significa anzitutto permettere alle persone di vivere il tipo di vita che essi scelgono – fornendo loro gli strumenti e le opportunità per fare questo genere di scelte
Le questioni sono tante, ma l’unico modo per combattere realmente stereotipi e pregiudizi che, non di rado, sfociano in violenze simboliche e reali, e promuovere avanzamento culturale e scientifico, è la conoscenza profonda delle persone, delle loro storie di vita, dei loro modi di pensare e stare nel mondo. Si ritiene rilevante dedicare particolare attenzione alle problematiche relative all’identità di genere e promuovere adeguati interventi di formazione-informazione non solo per i familiari degli utenti, ma anche per il personale delle istituzioni scolastiche, per le figure professionali dell’area sanitaria, sociale e legale che svolgono funzioni attinenti a questo campo e dei dipendenti della Pubblica Amministrazione.
Rispetto alla diagnosi di transessualismo, la pubblicazione dell’attuale DSM-5, con la sua diagnosi di Disforia di Genere, ha tuttavia soddisfatto e in parte tranquillizzato la comunità transgender, infondendo maggior ottimismo in quella parte dei suoi membri che auspica e prospetta un futuro decorso della diagnosi simile al destino incontrato dalla diagnosi di Omosessualità, ormai defunta da parecchi anni. Con l’attuale diagnosi l’APA sembra aver compiuto un deciso passo verso la depatologizzazione del transessualismo, ricordando appunto ciò che è avvenuto in passato con la diagnosi di omosessualità.
Da quanto trapela dalla letteratura visionata, il Disturbo dell’Identità di Genere può associarsi ad altre psicopatologie psichiatriche. Frequente è la comorbilità con Disturbi dell’Umore o Disturbi d’Ansia, e si può riscontrare in alcuni pazienti un Disturbo di Personalità, spesso di tipo Borderline. Si auspica ad una riduzione, grazie alla prevenzione ed ai trattamenti sia farmacologici che psicologici, delle correlazioni psichiatriche, che come abbiamo visto, possono essere sia una causa del Disturbo dell’Identità di Genere, sia una conseguenza.
Infine, non esistono studi epidemiologici recenti e veramente completi che forniscano dati sulla prevalenza del Disturbo dell’Identità di Genere. Le stime più attendibili si basano su ricerche effettuate soprattutto in Europa sui pazienti che richiedono l’intervento medico e chirurgico. E’ molto probabile che il fenomeno sia sottostimato. Risulta evidente il bisogno di effettuare ulteriori ricerche, sia nel territorio Europeo ma soprattutto in quello extraeuropeo ed anche con pazienti che non richiedono l’intervento medico e chirurgico, per una corretta stima della prevalenza di questo disturbo.

che cosa è la disforia di genere o disturbo di identità di genere

ok! Vi do subito la definizione per me più scioccante così ce la togliamo subito di mezzo per poi spiegare le cose in maniera un po' meno drammatica e naturale.
La disforia di genere viene considerata una malattia psichiatrica nel manuale diagnostico e statistico delle malattie psichiatriche e addirittura viene considerata l'unica malattia psichiatrica curabile con la chirurgia!
Se state leggendo questo blog probabilmente conoscete un bimbo con caratteristiche simili a mio figlio, magari proprio vostro figlio e leggere una cosa così vi mette addosso un'ansia senza pari.  Avrei potuto lasciare tale definizione da parte, ma siccome prima o poi ci sarà qualche dottore che ve lo dirà o lo leggerete da qualche parte meglio togliersi il dente subito.
Ecco, vediamo adesso di ridimensionare le cose.
Purtroppo dice bene la dottoressa Kristina Olson della Washington University, i nostri figli con "confusione di genere" sono i pionieri della transessualità moderna per cui non esistono ancora studi scientifici sufficienti per capire per bene le cose. Sicuramente nei paesi in cui il disturbo di identità di genere viene affrontato con più libertà e i bambini lasciati liberi di esprimersi per quello che si sentono di essere, si sta combattendo perché 'il problema' venga eliminato dal manuale diagnostico e statistico delle malattie psichiatriche.
La disforia di genere o disturbo di identità di genere si manifesta quando un bambino o una bambina sentono che il loro sesso biologico non corrisponde alla loro identità. In parole povere un bambino si sente una bambina e viceversa. Per questo motivo il bambino o la bambina fin da piccolissimi manifestano una tendenza a comportarsi come il genere a loro opposto volendosi vestire diversamente, facendo giochi tipicamente dell'altro sesso, sentendo avversione per i propri organi genitali.
Mantenere persistentemente nel tempo un comportamento che ha le caratteristiche che seguono può essere un buon segno che ci troviamo di fronte a un disturbo di identità di genere:
volersi vestire con cose del sesso opposto
avere principalmente amici del sesso opposto
fare giochi che normalmente si associano al sesso opposto
dire esplicitamente di sentirsi del sesso opposto
volersi far crescere i capelli (per i maschi) o volerli tagliare (per le femmine)
voler fare la pipì seduti (per i maschi) o in piedi (per le femmine)
indossare spesso qualcosa in testa ( magliette, veli, sciarpe) per fingere di avere i capelli lunghi (per i maschi)
provare un'avversione per i propri organi genitali
durante i giochi di ruolo impersonificare il sesso opposto (il bambino gioca a fare la mamma, la bambina il papà)
nel guardare cartoni animati o film identificarsi sempre nel personaggio femminile per i bambini e maschile per le bambine

 Spesso a questo si associa ansia e nervosismo e iperattività o depressione. Tutti sintomi di un malessere interiore perché ovviamente un bambino non ha in se i mezzi per saper gestire questa ambivalenza: essere in un modo fuori e sentirsi in un altro dentro.
Non vi nascondo che io quando leggo e studio e osservo mi sento una sorta di grafico impazzito. C'è una tale confusione, talmente poca conoscenza e talmente tanto pregiudizio che ci si sente sopraffatti. Si leggono dati sconcertanti  sul disturbo di identità di genere tipo queste due tavole che vi riporto:
tabella riassuntiva dei comportamenti a rischio nei giovani con DIG (disturbo di identità di genere)
dott. Sofia Bisogni, università degli studi di Firenze
 Più della metà delle persone transgender tentano il suicidio perché non supportati dall'amore delle loro famiglie e dalla società che li circonda. Lo trovo pazzesco. Ma la verità è anche che sì sappiamo che esistono i transessuali. Ma cosa sono? Chi sono? Nessuno ne parla e tutti contemporaneamente hanno pregiudizi al riguardo. Io prima di iniziare a crescere con mio figlio non se sapevo assolutamente nulla. E anche volendo sapere non trovavo notizie. Comprendo perfettamente la difficoltà di chi studia il disturbo di identità di genere specialmente in Italia dove abbiamo ancora da percorrere anni luce di strada e dove quindi i casi che si possono studiare credo siano davvero pochissimi.
La mia speranza è che se ne inizi a parlare di più, che si spieghi, che le famiglie appoggino i loro figli e escano allo scoperto per dimostrare che i bambini transgender sono bambini e basta e la mia speranza è che così facendo tabelle come quelle sopra diventino dati del passato
Non sono un medico, sono solo una madre con buonsenso e non credo che la disforia di genere sia una malattia psichiatrica. Credo abbia detto bene una mia amica del reparto di chirurgia estetica per la riassegnazione del sesso nelle persone transgender: 'è tanto e tale il peso del pregiudizio che le persone con disturbo di identità di genere devono sopportare durante tanti e lunghi anni che in età adulta può portare a avere serie conseguenze psichiatriche'. Per questo è importante essere presenti subito con i nostri figli e supportarli e amarli. Così facendo, presto, il disturbo inizierà essere chiamato diversamente e non verrà più catalogato come malattia psichiatrica. Cosa che peraltro sta già succedendo in molti paesi.
Questa è la nostra responsabilità di genitori.
Certamente bisogna tenere le suddette tabelle a mente come monito per stare sempre in guardia e difendere i nostri figli, ma bisogna anche iniziare a parlare di "casi felici", di bambini accettati e integrati, di famiglie diverse ma sane. Per abbattere il mostro del pregiudizio che è ciò che fa danni più di qualunque presupposta disforia.



Per fortuna parlo inglese!

Quando nell'ormai lontano 1991 sono andata a vivere negli Stati Uniti non avrei mai immaginato quanto sapere l'inglese mi avrebbe cambiato la vita e permesso cose che altrimenti non avrei potuto mai fare e conoscere. Sì devo dire che, non avessi parlato bene l'inglese, la mia vita sarebbe stata molto differente. E anche questa esperienza con mio figlio sarebbe stata molto diversa e sicuramente parecchio più difficile.
Mentre 'la fase' andava avanti e lui perseverava nei suoi gusti 'da femmina', vestendosi di rosa, indossando gonne e vestiti in casa (e qualche volta anche fuori finché era più piccolo), giocando con le Barbie, facendo danza classica... io cercavo di capire dove tutto questo ci stesse portando. Credo che sia compito di ogni genitore non privare i propri figli della libertà di scelta ma credo che sia anche un dovere cercare di capirli. Che non vuol dire "essere comprensivi" ma letteralmente cercare di capire che cosa avvenga dentro di loro.
Parlare con gli amici non serviva a nulla. Non avrei mai creduto ci fosse una tale chiusura mentale! Ognuno aveva la sua idea: ero io che lo avevo portato ad essere così, era lui che voleva in questo modo essere sempre al centro dell'attenzione, era la mancanza di una figura maschile importante e presente (io e mio marito ci siamo separati che mio figlio aveva 4 anni) ecc ecc. Così, l'unica alternativa era, come si dice, "googleare". Cercavo notizie su come "nascesse" l'omosessualità. Leggevo racconti di adulti omosessuali che raccontavano la loro infanzia. Eppure qualcosa in tutto questo non  "corrispondeva" ai comportamenti di mio figlio. Molti uomini omosessuali, quasi tutti a dire il vero, non raccontavano di questa necessità nella loro infanzia di vestirsi da femmina né di questa marcata appartenenza a tutto ciò che fosse femminile. Mi misi allora a cercare in maniera differente: "Bambini che vogliono essere bambine". Impossibile trovare qualcosa che mi soddisfacesse. I soliti discorsi banali della "fase". Finché pensai di cercare in inglese: "my son wants to be a girl". Da quel momento entrai in un mondo diverso e scoprii di non essere l'unica mamma che viveva una storia così. E per la prima volta lessi il termine "disforia di genere". Leggendo il primo articolo fui rimandata a un video su youtube. clicca qui per vedere il video
Josie Romero con la sua mamma 
La storia di Joey Romero, nato bambino e che adesso vive come Josie, una bambina felice. La storia ricordava moltissimo la mia. La descrizione di come in ogni negozio di vestiti Joey andasse sempre verso il reparto da bambina, il modo di giocare, la felicità quando poteva fingere di essere bimba, ma anche il nervosismo fin dalla prima infanzia, la mamma che andava dalla psicologa per capire perché suo figlio avesse tanta tensione e aggressività addosso. Guardai il video con curiosità, stupore e timore. E capii che avevo sicuramente una buona base da cui partire.
Continuai sempre più intensamente le mie ricerche su internet. Negli Stati Uniti, in Australia, in Gran Bretagna, ma anche in Colombia, Spagna, Huruguay, e in molti altri paesi che nel nostro immaginario sono più arretrati di noi, esistevano associazioni di famiglie di bambini transgender o gender fluid (in un post a sé spiegherò la differenza). Parlai anche con alcune di queste associazioni, scrissi alle mamme. Tutti gentilmente risposero. Stupendosi e dispiacendosi che dovessi arrivare agli altri capi del mondo per chiedere "supporto" e chiarimenti. Ma tutti condividendo esattamente la mia stessa identica storia. Capii che esiste un mondo intero, e forse più, di cose a noi sconosciute, che però ci concediamo il lusso di giudicare, finché qualcosa non ci introduce in quel mondo e cifa aprire gli occhi. E decisi che, sia che mio figlio fosse realmente transgender o meno, anche qui in Italia era arrivato il momento di stare dalla parte dei bambini "confusi" e sopratutto delle loro famiglie il cui ruolo è fondamentale per la crescita serena di ogni giovane vita e per il futuro di noi tutti.

venerdì 12 agosto 2016

La fase

Quando tuo figlio inizia a fare cose buffe ovviamente pensi che sia una fase.
A dir la verità lo pensi anche quando fa le bizze, quando non dorme, quando non mangia, quando non vuole andar a scuola, quando litiga coi fratelli, quando chiede sempre perché, quando vuole solo la mamma, quando... quando... quando. E' sempre UNA FASE. 
Di qualunque cosa tu possa parlare con amici e parenti  riguardo a tuo figlio o tua figlia la risposta puoi star certo sarà sempre "Tranquilla! E' una fase!"
E non avete idea di quante volte in 8 anni mi sono sentita dire di star tranquilla. Anche se la fase era  eterna e anche se non ero affatto preoccupata!
Onchao
L. da piccolino pareva un giocatore di football americano e quando si metteva i suoi vestitini a fiorellini ricamati a nido d'ape che avevo comprato anni prima per mia figlia in questo bellissimo negozietto in Rue Dauphine a Parigi, faceva veramente sorridere. Lui dalla prima volta che li aveva visti nell'armadio (perché mia figlia ovviamente non li aveva praticamente mai messi perché piacevano a me e non a lei) non se ne era più separato. Andava al nido, al tempo, e quando usciva il suo primo pensiero, appena entrava in casa, era mettersi il suo vestito. Ne aveva 4. Perché ai due di mia figlia se ne aggiungevano altri due miei, di quando ero piccola. E poi ce n'erano un altro paio che però non gli piacevano... erano blu....e il blu "non è da principessa, mamma!" Così, appena arrivati a casa, si metteva a suo agio e poi si guardava Cenerentola o La bella addormentata e lui era sempre "lei": Aurora, Ariel, Rainbow Dash, Belle, Trilly, Barbabella. L'unico personaggio maschile in cui si identificava era l'unicorno Onchao del cartone Mia and Me, che effettivamente con la chioma bionda fluente  assomigliava molto più a una femmina che a un maschio. 
Sicuramente per i primi due anni ho pensato anche io che fosse una "fase". Lo lasciavo molto libero di esprimersi.  Del resto era così felice coi suoi vestiti e con i suoi giochi e non faceva nulla di male! Non mi ero nemmeno posta il problema che tutto quello volesse dire qualcosa. 
Mi era capitato  di parlare con le maestre chiedendo loro se riscontrassero in lui qualche disagio, qualche ombra di tristezza, qualche atteggiamento eccessivo. Loro mi tranquillizzavano dicendo che tutto era normale "per la fase che stava attraversando"! Aveva molte amichette femmine e anche a scuola faceva più volentieri giochi da femmina.
Finchè, non mi dimenticherò mai, l'ultimo giorno di nido, proprio l'ultimo, una delle due maestre mi mandò a chiamare e così a bruciapelo mi disse: "Io credo che tu debba andare a parlare con uno psicoterapeuta dell'età evolutiva, ma uno bravo! Perché L. ha chiaramente un problema e se continua così a settembre alla scuola materna avrà una vita d'inferno! E inoltre basta comprargli principesse! Inizia un po' con le macchinine e le pistole che vedrai che passa tutto" 
"Passa tutto"
Io rimasi attonita. 
Arrivai a casa e mi feci immediatamente dare da una amica il numero di una psicoterapeuta infatile da cui era stata anche lei con la figlia. Non tanto perché volessi ubbidire a bacchetta a ciò che la maestra aveva detto, ma perchè volevo capire chi fosse quella fuori di testa! Del resto anche quasi tutte le mie amiche criticavano la mia accondiscendenza e si premuravano di regalare loro a mio figlio giochi da maschio per i compleanni, visto che io non lo facevo.
Andrai dalla dottoressa. Esposi la situazione. Lei ascoltò e poi mi chiese: "il punto è uno: lei che rapporto ha con l'omosessualità?"
Al tempo mi era sembrata una domanda così giusta! Se ci ripenso adesso 6 anni dopo capisco invece quanta non-conoscenza ci sia anche da parte degli "addetti ai lavori"!

Comunque, dopo questa domanda, alla quale risposi ovviamente che non avevo alcun problema, la psicologa mi disse che la persona inadeguata era stata sicuramente la maestra  e che io non avevo assolutamente sbagliato nell'assecondare mio figlio nei suoi gusti. Anche se già sapevo istintivamente di aver fatto la cosa giusta, avere la conferma da una specialista mi sollevava. Non solo: mi dava carta bianca per rispondere a tutte quelle persone che, oltre la maestra, mi dicevano che sbagliavo.
La dottoressa mi suggerì inoltre di lasciar fare a L. ciò che voleva, ma di ignorarlo, di non complimentarmi su che principessa bella fosse o come gli stesse bene un vestito o un gioiello per vedere se il suo era solo un mezzo per attirare l'attenzione. 
Così feci e la fase non passò!
L. è sempre Onchao e sfoggia con orgoglio la sua bellissima maglietta rosa che dice: "Be yourself! Unless you can be a unicorn!" (Sii te stesso! A meno che tu non possa essere un unicorno!)

Il ciuccio rosa

L. non aveva  nemmeno un anno una volta che, non trovando più il suo ciuccio, nella disperazione totale, più io che lui, all'idea di  passare una notte insonne, scesi in farmacia a comprarne uno. Ricordo che li avevano finiti. Era rimasta solamente una confezione da due: uno era rosa e l'altro era verde. Mi dissi, vabbè c'è quello verde….quello rosa lo terrò di riserva. Allora anche io avevo subito pensato che il rosa non fosse da maschio. Non importava che mia figlia avesse sempre avuto ciucci blu… perché le femmine "possono" vestirsi di blu, essere maschiacci, mettere i pantaloni ecc.  I maschi, invece, devono sempre e inevitabilmente rappresentare la loro 'categoria'. Così anche io, che non ho mai avuto nulla contro nessuno, ebbi il pensiero innato che quel ciuccio rosa lui non lo avrebbe usato.
Arrivai a casa. Lui sul seggiolone. Presi la forbice per aprire l'involucro di plastica e gli porsi il ciuccio verde. Lui mi guardò e mi disse 'no!'. No cosa? Lui indicò l'altro ciuccio e mi ridiede quello verde dicendo "Etto no! Ello sì'. E si mise in bocca, tutto felice, quello rosa. 
Se riflettiamo in maniera un po' più approfondita, ma poi nemmeno troppo, gli stereotipi molto spesso si basano su un nulla.
Sicuramente è il caso dei colori.
Un colore.
Che cosa è un colore?
Il colore è una percezione visiva. Nulla di più. Eppure sui colori si basano moltissime cose. Essi vengono usati per distinguere tantissimi ruoli e per creare un linguaggio comune, a volte globale. Pensiamo ai  semafori, ai medici negli ospedali col loro camice,  alle autostrade e alle superstrade in Italia (autostrada segnale verde, superstrada segnale blu). Ed effettivamente quando usati come convenzione per comunicare, per molti aspetti facilitano la vita. Ma purtroppo creano anche degli stereotipi: rosa femmina, azzurro maschio. Ma i bambini non sono delle autostrade ma sono dei piccoli esseri umani in divenire che hanno il sacrosanto diritto di scegliere.
Franklyn Delano Roosevelt 1884
Nella mia famiglia fin dall'epoca dei miei nonni e bisnonni siamo stati appassionati di fotografia e ricordo le foto dei miei nonni da piccoli. Era praticamente impossibile capire chi fosse maschio e chi femmina. Mio nonno portava capelli a caschetto fino alle spalle. Vestitino bianco con gonnellina e scarpe tipo ballerine. Mia nonna uguale. E i vestiti erano bianchi per entrambi, bianchi e uguali. Era più pratico avere vestiti uguali e di colore chiaro perché erano più facili da pulire. Ciò dimostra che le distinzioni sui colori sono cosa abbastanza recente.
Chi ha avuto quindi questa idea geniale? Come è nata questa convenzione che il rosa sia delle femmine e l'azzurro dei maschi?  In realtà non so bene chi sia stato esattamente il primo a fare l'associazione, e tutto sommato poco importa, credo però che certamente la distinzione rosa/azzurro  sia stata  sfruttato  ad hoc per una vera e propria strategia di marketing facendo sì che in pochissimo tempo questi colori diventassero uno stereotipo. Il boom economico  e più tardi  il progresso medico hanno lavorato insieme per creare la prigionia del rosa e dell'azzurro. Le grandi marche hanno iniziato a bombardare il mercato di prodotti per bambini sopratutto dal periodo del baby boom in poi. La diagnosi prenatale  ha reso possibile sapere tutto in anticipo scatenando e sfruttando l'entusiasmo dei futuri genitori. E le due cose insieme hanno in pochissimo tempo creato un fenomeno globale. Poco dopo l'inizio della gravidanza, appena saputo il sesso, i futuri genitori partono all'arrembaggio dei negozi per bambini. Migliaia  di 'baby showers'  vengono organizzate quotidianamente facendo sì che  i genitori impazziti riempiano  case intere di rosa o di azzurro ancor prima che il loro figlio possa emettere il primo vagito. Per la grande gioia delle aziende produttrici di articoli per l'infanzia.
Questo se ci pensiamo bene è il primo seme che piantiamo in terra per l'inizio della schiavitù.
Ammettiamolo: ci cadiamo un po' tutti dentro questi banali stereotipi forse più per pigrizia che per vera convinzione. Seguiamo la massa, la moda, la routine. E non è superficialità, è 'norma'. Col cuore colmo di amore e di emozione crediamo che sia il modo per accogliere al meglio il nostro bebè. Dare tutto subito ancora prima della nascita.
Ma ciò che noi diamo è ciò che il bimbo vorrà?
E  ciò che noi a priori decidiamo  sarà ciò che poi lo/la rappresenterà?
Dovremmo iniziare a riflettere di più e distinguere tra convenzioni che uniscono e convenzioni che dividono. Dovremmo iniziare a capire che sono proprio questi iniziali stereotipi che, al di là del banale, gettano le basi per alcune costrizioni che possono fare tremendamente soffrire i nostri figli. Farli sentire inadeguati, diversi, obbligati, privi di possibilità di scelta. Non sto dicendo che la cosa sia facile. Si mette in gioco tutto il nostro ruolo di genitori.
Qual è il nostro ruolo?
Dobbiamo "insegnare" loro come si fa?
Dobbiamo solo seguirli e aiutarli nel bisogno?
Dobbiamo lasciarli sbagliare?
Dobbiamo insegnare loro a non sbagliare?
Dobbiamo aprire aprire loro la strada?
Mio figlio il ciuccio rosa non l'ha più lasciato…finché, certo, non  ha smesso di usarlo. 
E io l'ho lasciato fare.
Avrò fatto bene?

Ci siamo!

Ecco! Ci siamo! Finalmente dopo tanto tempo e tanta indecisione inizio a condividere questa mia avventura.
Non che non la volessi condividere o che mi vergognassi a parlarne. Ma è stata talmente tanta la mole di cose che ho dovuto imparare, alcune molto interessanti, alcune molto preoccupanti, che mi ci perdevo un po' dentro. Proprio però perché sono tante e proprio perché ci ho messo tanto tempo, credo che sia giunto il momento di condividere la mia esperienza ( peraltro ancora in fase iniziale) e anche la mia conoscenza con chi può trovarsi a vivere quello che vivo io.
Mio figlio è nato l'8 maggio del 2003. Ricordo ancora le grosse mani del ginecologo che me lo estrapolano dalla pancia con un bel cesareo pilotato perché la simpatica creatura di  quasi 4 chili e 2 aveva deciso di mettersi podalico. Per essere onesti, tale posizionamento fu da me molto apprezzato,
io che ancora sentivo palpabile addosso l'ago delle ricuciture del mio primo parto naturale! L'idea di avere adesso dei punti semplicemente sulla pancia, e non in luoghi più difficili da gestire, mi rendeva molto felice e quel bimbo appena nato….Dio se era bello! Pareva finto! Ma non come dicono tutte le mamme. Pareva finto davvero. Era perfetto. Ricordo che il brusco e solitamente poco socievole neonatologo che lo visitò venne da me di persona e mi disse: "Signora, raramente ho visto un neonato tanto bello e tanto attivo! Si prepari però perché le Ferrari consumano molto più delle 500 e le energie che questo bimbo consumerà saranno le sue! Auguri!" 
Beh mai pronostico fu più azzeccato!
Da quanto piangeva e strillava io dopo tre ore avevo due poppe grandi come sue cocomeri e una montata lattea da fare invidia a quella di un pachiderma e lui, che da quel momento avrebbe poppato  giorno e notte ogni 45 min, dopo i primi 3 mesi pesava già 10 chili, a 10 mesi camminava e a un anno girava per casa da solo scegliendo giochi e vestiti con una capacità decisionale e una testardaggine da bambino molto più grande della sua età. 
Tutto, sebbene faticoso, abbastanza nella norma per un bambino precoce, se non fosse stato per quel tratto distintivo per cui tutto ciò che mio figlio desiderava e sceglieva per sé era rigorosamente 'da femmina'.
Mio figlio  adesso ha otto anni e, sebbene non sia stata 'diagnosticata' (termine che in questo caso specifico aborro) una 'disforia di genere' presenta molte caratteristiche di un bambino "transgender". In questo momento 'quelli bravi' direbbero che è un bambino 'gender fluid' , un bambino cioè che non si riconosce in un sesso specifico. Per me è mio figlio e basta, ma credo che sia arrivato il momento di fare un po' di chiarezza su queste cose soprattutto in una Italia che pare ancorata col cemento armato a non si sa che. Ed è soprattutto arrivato il momento di iniziare a raccontare delle esperienze personali che possano aiutarci a crescere, a condividere e sopratutto a gettare delle fondamenta solide su cui i nostri figli possano camminare in futuro e costruire, ognuno a modo proprio, le loro vite.